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Nel corso del Consiglio Comunale dello scorso 17 aprile, la Sindaca Baccolini ha informato l'assemblea che la Procura di Modena ha chiesto l’archiviazione della querela presentata nel 2022 dall'allora Sindaca Nannetti e dalla sua Giunta nei confronti di 27 cittadini. La Sindaca ha altresì comunicato che l'attuale Amministrazione non intende presentare opposizione a tale richiesta. "Bene", ci siamo detti, prendendo atto che la questione si chiude con un epilogo che, a nostro avviso, è corretto.

Dobbiamo però confessare che il comunicato del PD di Nonantola a commento dell’archiviazione ci ha stupito e anche un po’ deluso. Che la querela del 2022 abbia partorito un topolino – archiviata perché sui social si usano espressioni discorsive – dev’essere stato indubbiamente un boccone amaro da mandar giù. I toni da rimprovero verso le motivazioni del PM ricordano chi critica la magistratura per sentenze sgradite. L'esito di archiviazione rende infine illogica la pretesa di scuse dai cittadini ingiustamente querelati. Sono piuttosto loro che dovrebbero ricevere scuse dalla Giunta per un'azione legale temeraria e dal sapore intimidatorio. Per il futuro, suggeriamo di indirizzare risorse pubbliche verso iniziative maggiormente fondate sul piano giuridico.

Questa vicenda, va ricordato, fu l'emblema di un rapporto difficile tra Giunta e cittadini, sfociato nel voto contrario del Consiglio, grazie anche all’astensione di una parte del PD, su un tema cruciale come il polo logistico delle Gazzate. L'archiviazione della querela conferma che la critica, legittima, verteva su scelte politiche contestate – conflitto istituzionale, visione urbanistica, mancanza di partecipazione – non su mera scortesia.

Ma come eravamo sereni nel 2022 sostenendo che quella querela era un atto sproporzionato e infondato, lo siamo ancora di più oggi che la magistratura ha confermato la nostra visione, decretando che quelle espressioni erano semplicemente critica politica. È ora di superare questa vicenda nata male e gestita peggio. Serva da riflessione sull'importanza del rispetto dei ruoli istituzionali per evitare in futuro iniziative politicamente dannose. L'attuale Amministrazione non ripeta gli errori del passato: faccia della partecipazione e della trasparenza gli assi portanti dell’azione di governo.

I motivi per ripudiare e condannare il fascismo sono tanti. E a guardarli con onestà, non servono ideologie per capirli: basta conoscere la storia, quella vera.

Quando si parla di fascismo c’è chi ricorda – giustamente – la fine della libertà: la soppressione dei partiti, la censura dei giornali, la polizia politica, l’esilio, il confino, gli omicidi. L’Italia ridotta al silenzio, e chi parlava troppo finiva nei fascicoli dell’OVRA o nelle isole sperdute, a meditare sul concetto di ordine.

Altri non dimenticano l’attacco ai lavoratori: le camere del lavoro incendiate, i sindacati liberi soppressi, le cooperative schiacciate. Il lavoro ridotto a strumento passivo del regime, mentre i grandi industriali e i gerarchi si spartivano il potere.

E poi ci sono le colpe più profonde, che scavano come ferite nella coscienza civile del Paese. La clericalizzazione dello Stato, che ribaltò secoli di laicità per piegarsi ai voleri del Vaticano. La misoginia, che relegò le donne a fattrici per la patria, escludendole dalla vita pubblica. L’omofobia, che perseguitò chi non rientrava nel canone della virilità fascista, trasformando vite private in casi da reprimere.

E come non ricordare la guerra. Mussolini decise di trascinare l’Italia in un conflitto mondiale senza una reale preparazione militare, spinto dall’ambizione di sedere al tavolo dei vincitori accanto alla Germania nazista. Scelse la guerra, non la subì. E quella scelta portò lutti, distruzioni, fame, occupazione, rappresaglie. Intere città italiane furono rase al suolo, centinaia di migliaia di vite spezzate. Di tutto questo il fascismo porta una responsabilità piena e diretta, che non si può ignorare né minimizzare.

Ma il punto più basso arriva con le leggi razziali del 1938. Pensate, scritte e firmate da italiani contro altri italiani, solo perché ebrei. E poi le deportazioni, le consegne agli aguzzini tedeschi. Senza pietà, senza onore.

E come se tutto questo non bastasse, c’è un gesto che da solo basterebbe a definirli per sempre traditori della patria.

Il 30 novembre 1943, Mussolini acconsentì a consegnare alla Germania nazista una parte dell’Italia. Bolzano, Trento, Belluno, Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume, Lubiana – tutte annesse agli “Operationszonen” tedesche. Non protestò. Non difese nulla. Scelse il silenzio e l’obbedienza. E così svendette territori che la retorica fascista aveva per anni esaltato come sacri, conquistati col sangue degli italiani durante la Grande Guerra.

E qui bisogna fare una riflessione.

Perché quelle città – Trieste, Trento, il Carso – erano diventate simboli nazionali. Era lì che erano morti a migliaia i nostri nonni e bisnonni, mandati all’assalto di trincee austro-ungariche in condizioni disumane. Era lì che si era combattuta l’“inutile strage”, che poi il fascismo aveva trasformato in mito patriottico. E proprio quelle terre, che il popolo italiano aveva pagato col dolore e col sangue, Mussolini le regalava agli invasori, cancellando con un tratto di penna tutto quel sacrificio.

E mentre il Duce voltava le spalle alla storia e al Paese, gli italiani veri, i patrioti, sceglievano un’altra strada.

Erano i partigiani, i ragazzi di vent’anni, gli ex militari sbandati, i professori, le staffette, i contadini. Italiani che dissero no. Che salirono in montagna per combattere l’invasore tedesco e i suoi servi fascisti, traditori in divisa che parlavano ancora di patria mentre la vendevano al nemico.

Perché di questo si trattò: non una guerra civile tra due visioni del mondo, tra diverse ideologie, ma una guerra tra chi stava con l’Italia e chi l’aveva tradita. Da una parte c’era l’occupante, aiutato da connazionali che facevano da carcerieri e da delatori. Dall’altra c’erano gli italiani che combattevano per un’idea di nazione libera, democratica, indipendente.

Per questo oggi celebriamo la Liberazione, non genericamente la libertà. Perché fu una scelta precisa: quella di liberare il Paese dai traditori e dagli invasori.
E per questo, ancora oggi, chi non si dichiara antifascista non può dirsi davvero italiano. Non dopo tutto questo. Non dopo aver saputo da che parte stavano, davvero, l’onore e la patria.